L’esperienza della “mente vagante”

L’esperienza della “mente vagante” è uno stato mentale che si attiva negli stati di riposo, durante le attività “passive”, con le associazioni libere in un assetto di psicoterapia o psicoanalisi che ne hanno fatto un metodo elettivo. I pensieri scorrono fluidamente. Gli stimoli esterni incisivi sono assenti. I ricordi spontanei si affacciano alla memoria, compaiono immagini mentali, emozioni. La mente monitora, senza alcuno sforzo, le sensazioni neurovegetative e corporee in generale e pianifica attività future. Questa condizione mentale è una funzione psicologica di base, della cui importanza solitamente non ci si accorge fino a che essa non viene a mancare per l’invasione di qualche pensiero disturbante, di angosce, di preoccupazioni, di idee ossessive, fisse, rigide o di traumi che si impongono ripetutamente alla mente. E allora il compito di una psicoterapia o di una psicoanalisi diviene ristabilirne la fluidità

Nella ricerca scientifica questa esperienza spontanea viene denominata REST, ovvero Random Episodic Silent Thinking, un pensare silenzioso (o verbalizzato) collegato all’emergenza fluida di aspetti della memoria episodica e autobiografica (Andreasen, 2011). Il REST si disattiva quando la realtà esterna impone compiti o sfide che coinvolgono l’attenzione focalizzata (Binder, 2012). 

Come osservato con le tecniche di neuroimaging che hanno il pregio di visualizzare la struttura e la funzionalità del cervello per così dire in vivo, tale esperienza è il risultato di una complessa interrelazione tra differenti regioni di entrambi gli emisferi cerebrali caratterizzati da un’elevata connettività funzionale e da un’intensa attività metabolica, che viene definita altresì Default Mode Network (Raichle et alii, 2001). Si tratta di una composita rete neurale che coinvolge: corteccia prefrontale mediale, ippocampo, giro para-ippocampale, regioni temporali laterali e temporo-parietali, cortecce posteriori mediali, quindi corteccia cingolata posteriore e precuneo. Insomma, il Default Mode Network può anche essere definito il correlato neurobiologico del sé (Esposito, 2021), nonché la rete cerebrale dell’introspezione (Raichle et alii, idem). 

Bibliografia

Andreasen N.C. (2011). A journey into chaos: creativity and the unconscious. In Mens Sana Monogr. 9(1):42-53.

Binder J.R. (2012). Task-induced deactivation and the “resting” state. In Neuroimage, 62(2): 1086-1091.

Esposito R. (2021). Il rapporto corpo-mente nei disturbi alimentari: il punto di vista delle Neuroimmagini. In Gruppo: Omogeneità e differenze, 7, 2021: 130-143. 

Raichle M.E., MacLeod A.M., Snyder A.Z., Powers W.J., Gusnard D.A., Shulman G.L. (2001). A default mode of brain function. In Proc. Natl. Acad. Sci. USA, 98(2): 676-82. 

L’interazione collaborativa tra paziente e terapeuta in Psicoterapia

La relazione terapeutica è una tipologia di interazione squisitamente collaborativa (Ponsi, 2000), dinamica e interpersonale, ovvero impegnata in uno “sforzo congiunto” (Beck, 1976) di paziente e terapeuta nella direzione del cambiamento, ovvero il risultato atteso in un contesto clinico terapeutico. L’espressione “alleanza di lavoro” è stata utilizzata per la prima volta da Greenson (1965) per definire la capacità del paziente di mantenere una relazione positiva e finalistica con il clinico, nonostante ed in virtù dell’intensità degli aspetti emotivi che sono in gioco nel corso del trattamento. Qualche anno prima, Zetzel (1958) aveva utilizzato l’espressione “alleanza terapeutica” per indicare la condivisione matura della realtà nella relazione tra paziente e terapeuta. In letteratura è altresì adoperata l’espressione “alleanza di trattamento” di Sandler, Dare e Holder (1973) proprio per indicare la relazione collaborativa che si sviluppa nel corso del trattamento tra paziente e clinico.


Ciascuna di queste espressioni definisce la «dimensione interattiva riferita alla capacità del paziente e terapeuta di sviluppare una relazione basata sulla fiducia, sul rispetto e la collaborazione e finalizzata ad affrontare i problemi e le difficoltà del paziente» (Lingiardi e Colli, 2003, p. 1).


L’alleanza di lavoro è una nozione bi-personale (Ponsi, idem; Baranger, 1961-2); essa implica una qualità generalmente positiva del rapporto, in cui entrambe le polarità relazionali possano mettersi in gioco, ciascuno nel proprio ruolo, in un percorso che possa essere utile e focalizzato sul paziente e sul raggiungimento dei suoi obiettivi di sviluppo.


Tuttavia, occorre necessariamente precisare che il fatto che la relazione sia “generalmente positiva” non significa che essa debba essere “perfetta”. Anzi, incomprensioni, de-sincronizzazioni, sfasature o altre tipologie di increspature relazionali non solo sono inevitabili, ma possono diventare un’importante occasione di crescita di entrambi i membri della coppia, nonché della relazione stessa, purché esse siano riconosciute, affrontate ed utilizzate allo scopo di mettere in atto una “negoziazione intersoggettiva” della relazione terapeutica, suscettibile di portare a ricomposizioni e riparazioni nell’alleanza (Safran e Muran, 2000). Riparare alle rotture relazionali vuol dire metacomunicare sul rapporto e lavorare sull’alleanza risolvendone le problematiche, affinando quei preziosi strumenti di riflessione, autoriflessione ed esplorazione estremamente utili a prendersi cura del trattamento del paziente, nonché alla messa a disposizione degli stessi affinché il paziente, a sua volta, possa prendersi cura al meglio dei propri legami significativi.

Bibliografia
Baranger M., W. (1961-2). La situazione psicoanalitica come campo bi-personale. Raffaello Cortina Editore: Milano 1990.
Beck A.T. (1976). Principi di terapia cognitiva. Astrolabio: Roma 1984.
Greenson R.R. (1965). The working alliance and the transference neuroses. In Psychoanalytic Quarterly, 34, 1965, pp. 155-81.
Lingiardi V., Colli A. (2003). Alleanza terapeutica: rotture e riparazioni. In Quaderni di Psicologia, Analisi transazionale e Scienze umane, 38, 2003.
Ponsi, M. (2000). Paradigma relazionale e alleanza terapeutica. In Lingiardi V., L’alleanza terapeutica: teoria, ricerca e clinica. Raffaello Cortina Editore: Milano 2002.
Safran J.D., Muran J.C. (2000). Negotiating the therapeutic alliance: A relational treatment guide. Guilford: New York 2000.
Sandler J., Dare C., Holder A. (1973). Il paziente e l’analista. Bollati Boringhieri: Torino 1974.
Zetzel E.R. (1958). Psichiatria Psicoanalitica. Bollati Boringhieri: Torino 1976.

Sul bisogno di essere compresi

di Adelina Detcheva

Nella stanza di terapia accadono molte cose. Alcune delle cose che accadono si collocano ad un livello base, implicito, non verbale; altre implicano un livello di complessità a diverso gradiente. 

L’esperienza del paziente di sentirsi compreso e il suo corrispettivo, l’atto di comprendere, da parte del clinico è, senza dubbio, una delle attività più basiche e, contemporaneamente, più complesse tra i vari accadimenti di un colloquio clinico.

Spesso sottovalutato dalla letteratura scientifica, comprendere vuol dire cogliere qualcosa di essenziale del funzionamento del paziente; qualcosa che gli altri (il contesto intorno, gli altri significativi) non sono riusciti a vedere, per i motivi più svariati; spesso, qualcosa che il paziente stesso fa fatica a mettere in una forma psichica, pur spinto dal bisogno profondo e primario di un qualcosa di indefinito. 

L’atto di ‘comprendere-essere compresi’ dona l’opportunità della coppia a lavoro nella stanza di terapia di cogliere una totalità dell’esperienza psichica del paziente e non un suo frammento. 

Dotata di queste qualità di essenzialità e globalità, la comprensione psicoanalitica apre alla libera circolazione dell’affettività, a traiettorie di senso in evoluzione, nonché all’ossigenazione di zone psichiche in precedenza sopite ma fondamentali per sentirsi vivi e interi.

Mentalizzazione

di Adelina Detcheva

La mentalizzazione è un costrutto dotato di uno straordinario potenziale in psicologia clinica e psicoterapia. Sapere cosa proviamo, cosa ci disturba, in poche parole, essere capaci di riflettere sulla nostra esperienza interna ed esterna, è un fattore di protezione trasversale in una serie di situazioni che potrebbero minare il nostro benessere e la nostra salute mentale (Allen e Fonagy, 2006).

Sui suoi rapporti con lo stress: https://psicologinews.it/stress-e-mentalizzazione/

Bibliografia

Allen J.G., Fonagy P. (2006). La mentalizzazione. Il Mulino: Bologna, 2008.

Sull’esperienza di sentirsi esistere

di Adelina Detcheva

Talvolta si ha l’impressione che qualcosa manchi. Una strana esperienza di vuoto, una spiacevole e perenne sensazione di non sentirsi reali. Una compiacenza, un modo di fare sociale, un conformismo. Magari un’intelligenza al di sopra della media. 

Magari una persona con questo tipo di esperienza giunge in analisi ad un certo punto della sua vita senza sapere nemmeno il perché. 

«La paziente che ho citato in precedenza è giunta verso la fine di una lunga analisi all’inizio della sua vita. Essa non ha alcuna vera esperienza, non ha un passato; comincia con cinquant’anni di vita inutile, ma finalmente si sente reale, e perciò ora vuole vivere» (Winnicott, 1965, p. 188). 

E perciò ora vuole vivere: un commento breve. Il commento più potente di tutte le considerazioni. E non importa quand’è che succede: l’importante è che succeda, prima o poi.

Bibliografia

Winnicott D.W. (1965). La distorsione dell’Io in rapporto al Vero ed al Falso Sé. In Sviluppo affettivo e ambiente. Armando: Roma, 1970.

«Saremmo davvero poveri se fossimo soltanto sani»

di Adelina Detcheva

Solitamente si considera ‘sano’ chi si adatta alla realtà esterna, chi presenta un buon funzionamento in tutti i domini della vita che sia sociale, lavorativo, affettivo, familiare. Molti clinici basano le loro valutazioni su inferenze in base all’adattamento e al funzionamento. E anche a ragione, si tratta di osservare le coordinate della realtà esterna che il paziente abita.

Eppure ho l’impressione che questo stato di cose non riesca ad afferrare ciò che veramente esplora. Se la domanda è “come sta la persona che ho di fronte”, l’osservazione dei domini di vita, per quanto importante, non ne fornisce una risposta. Sì, magari il paziente funziona; sì, magari presenta un buon adattamento alla realtà esterna. Ma come sta? Si sente contento di vivere la sua vita? E’ in contatto con il suo mondo emotivo? E’ in grado di sentirsi felice, di godere dell’esperienza di essere nel mondo

In una breve nota del suo bellissimo saggio, Lo sviluppo emozionale primario, Winnicott (1945) commentava l’importanza del contatto vitale con il nostro Sé primitivo, «da cui provengono i sentimenti più intensi e anche sensazioni estremamente acute» (p. 203). Una specie di dimensione personale, un nucleo affettivo, sorgente dei “sentimenti più intensi” e “delle sensazioni estremamente acute”. Ecco, forse è proprio questo contatto che assegna una qualità all’esperienza umana e ne accresce il valore

Dunque, «saremmo davvero poveri se fossimo soltanto sani» (idem). 

Bibliografia

Winnicott, D. W. (1945). Lo sviluppo emozionale primario. In Dalla Pediatria alla Psicoanalisi. Giunti: Firenze, 2007. 

L’ascolto psicologico dal punto di vista psicodinamico

di Adelina Detcheva

L’ascolto psicologico è un processo continuo fondamentale in qualunque tipo di intervento clinico. Si tratta di un ascolto attivo, polisensoriale per la persona del clinico, che si predispone ad accogliere e ricevere ciò che sente. Si ascolta ciò che viene detto e ciò che non viene detto, vale a dire il silenzio. 

Chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere si convince che ai mortali non è possibile celare nessun segreto. Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita, si tradisce attraverso tutti i pori. Perciò il compito di render coscienti le cose più nascoste dell’anima è perfettamente realizzabile (Freud, 1901).

Questa frase di Freud del 1901, ancora terribilmente vera tutt’ora, ad una prima lettura può sembrare un po’ spaventosa per chi si trova a chiedere aiuto professionale. Sembra infatti che il clinico sappia leggere l’inconscio di un paziente che appare piuttosto come “trasparente”, vulnerabile, indifeso. Dà, in parallelo, un’immagine del clinico onnipotente, visionario, depositario di poteri soprannaturali indescrivibili a parole. 

Nella realtà, nel 2021, possiamo riformulare questa fantasia descrivendo il processo con maggior precisione: il clinico è un professionista allenato a comprendere le dinamiche dell’inconscio tramite un percorso proprio di approfondimento psicoanalitico. In altre parole, il curante ha imparato il mestiere di paziente, si è messo in condizione di divenire sensibile agli aspetti inconsci della propria vita psichica. In virtù di questa competenza, egli è in grado di ricevere ciò che il paziente gli comunica al meglio che può per metterlo in grado di capire cosa lo affligge e come questo può fornirgli il suo aiuto: il paziente, parafrasando Bion (1983), è il nostro miglior collega

L’ascolto psicologico è una funzione della mente del clinico. Nello studio clinico, curante e paziente si mettono insieme in ascolto della profondità della vita psichica.

Bibliografia

Bion W.R. (1983). Seminari italiani. Borla: Roma, 1985,

Freud S. (1901). Frammento di un’analisi d’isteria. Il caso clinico di Dora. Opere IV. Bollati Boringhieri: Torino, 1977.

L’inconscio, ovvero l’inconscio e la sua relazione con la coscienza

di Adelina Detcheva

L’inconscio è tutto ciò che non sappiamo di noi. Non penso che arrivi mai un momento, come si augurava Freud (1923), in cui “Là dov’era Es, deve diventare Io”, ovvero in cui tutto l’inconscio diventi coscienza. E forse un’aspettativa del genere non è nemmeno desiderabile. Dopo tutto, perché mai dobbiamo venire a conoscenza di tutto ciò che è in noi? Come può portarci una cosa del genere a stare meglio con noi stessi e con gli altri?

Lascio aperto questo interrogativo, tentando di approfondire meglio ciò in cui consiste questa zona così misteriosa della nostra vita psichica.   

L’inconscio è l’ignoto dentro di noi. È il motore, la sorgente dei nostri più profondi desideri (Freud, 1923), la zona di contatto con il nostro corpo (Freud, Groddeck, 1917). L’inconscio è più vicino alla comunicazione non verbale piuttosto che a quella verbale. E non a caso: gli studi di neuropsicoanalisi (Giacolini, Pirrongelli, 2018) collocano la sua sede nel sistema limbico, ovvero in quell’insieme di strutture cerebrali e circuiti neuronali che costituiscono la parte più antica e profonda del nostro cervello, deputato all’emergenza delle emozioni e degli affetti (e non solo!). 

Forse, in accordo con gli studi scientifici aggiornati (Schore, 2008) più che sull’inconscio, conviene soffermarsi sulla relazione tra l’inconscio e la coscienza. Perché, in fondo, è questo il rapporto intrapsichico basilare che viene rafforzato nel corso di una psicoterapia psicodinamica. Tale rapporto è tutt’altro che semplice: tra queste due sfere della vita psichica possono svilupparsi una serie di relazioni. Vi può essere negazione: la coscienza ignora le emozioni. Vi può essere conflitto: le forze inconsce lottano con la coscienza come in un campo di battaglia, consumando l’intero impianto energetico della persona. Vi può essere collaborazione: la parte più matura della personalità accoglie e sente gli affetti. Gli affetti sono la nostra bussola interna, orientano la percezione e la comprensione del proprio mondo interno ed esterno. La terapia psicodinamica sostiene e cura la relazione di collaborazione tra la coscienza e l’inconscio. In fondo, le forze inconsce possono essere comprese e usate giorno dopo giorno come le fonti della vitalità della vita psichica, arricchendo, e di tanto, la realtà personale. 

Bibliografia

Freud S., Groddeck G. (1917). Carteggio Freud-Groddeck. Adelphi: Milano, 1973.

Freud S. (1923). L’Io e L’Es. Opere IX. Bollati Boringhieri: Torino, 1978. 

Giacolini T., Pirrongelli C. (2018). Neuropsicoanalisi dell’inconscio. Alpes: Roma. 

Schore A. N. (2008). La regolazione degli affetti e la riparazione del sé. Astrolabio: Roma.