«Saremmo davvero poveri se fossimo soltanto sani»

di Adelina Detcheva

Solitamente si considera ‘sano’ chi si adatta alla realtà esterna, chi presenta un buon funzionamento in tutti i domini della vita che sia sociale, lavorativo, affettivo, familiare. Molti clinici basano le loro valutazioni su inferenze in base all’adattamento e al funzionamento. E anche a ragione, si tratta di osservare le coordinate della realtà esterna che il paziente abita.

Eppure ho l’impressione che questo stato di cose non riesca ad afferrare ciò che veramente esplora. Se la domanda è “come sta la persona che ho di fronte”, l’osservazione dei domini di vita, per quanto importante, non ne fornisce una risposta. Sì, magari il paziente funziona; sì, magari presenta un buon adattamento alla realtà esterna. Ma come sta? Si sente contento di vivere la sua vita? E’ in contatto con il suo mondo emotivo? E’ in grado di sentirsi felice, di godere dell’esperienza di essere nel mondo

In una breve nota del suo bellissimo saggio, Lo sviluppo emozionale primario, Winnicott (1945) commentava l’importanza del contatto vitale con il nostro Sé primitivo, «da cui provengono i sentimenti più intensi e anche sensazioni estremamente acute» (p. 203). Una specie di dimensione personale, un nucleo affettivo, sorgente dei “sentimenti più intensi” e “delle sensazioni estremamente acute”. Ecco, forse è proprio questo contatto che assegna una qualità all’esperienza umana e ne accresce il valore

Dunque, «saremmo davvero poveri se fossimo soltanto sani» (idem). 

Bibliografia

Winnicott, D. W. (1945). Lo sviluppo emozionale primario. In Dalla Pediatria alla Psicoanalisi. Giunti: Firenze, 2007.